OPERE

UBALDO URBANO
di Salvatore Ciccone

Per apprezzare, in pittura, dove finisce un garbaro e s'inizia un lavoro d'artista bisogna porsi il problema non soltanto dal punto di vista delle vibrazioni che il quadro, olio o disegno, suscita sullo specchio dell'animo quanto dal punto di vista della capacità di sintesi e di semplificazione operate dall'autore. Col mezzo colorico, con l'impiego della luce, col movimento. Tre cose che devono essere fondamentali, e che valgono più del soggetto ritenuto ancora il fulcro di un'opera.

Ubaldo Urbano è alla sua prima personale. Mostra maturità perché non abusa dello schema geometrico così come non indulge a curve e ad arabeschi facili a ritrovarsi in questa seconda Italia ancora tanto ricca di venature arabe. Se collima, per taluni aspetti, con la stilizzazione cara all'arte popolare, resta nel giusto e nel consentito in quanto è capace di non fare evadere dalla tela l'angoscia dell'epoca. Premuto com'è dalla coscienza del dramma autentico e non dalla "moda" che esige per ogni artista una forma sempre diversa di noia, iponoia o che so io. Egli raggiunge il fine, ch'è quello d'esprimersi, affermando perfino la satira. Anche in questo caso offre un prodotto che raggiunge un'intensa penetrazione psicologica: come certi feticci negri lavorati abilmente in scultura alla maniera d'un artigianato d'eccezione. Ci troviamo, in una parola, dinanzi a lavori presentati al pubblico nella migliore umiltà, ma conclusi per sintesi, movimento, pennellata e stilizzazione. Tanto più che il modellato avverte il pretesto che gli ha imposto l'artista. Ancora una volta in un giovane meridionale si afferma la ricerca dello stato d'animo. Si scrive, a mezzo pittura, una piccola ma sobria cronaca da inserire nella mai tracciata storia sociale del Mezzogiorno d'Italia.

In catalogo mostra personale di Ubaldo Urbano, Foggia, Pronao della Villa Comunale, novembre 1963.