OPERE
IL TALENTO DELLE DONNE DI URBANO
di Davide Grittani
Di spirito e carne, di fede e scienza, di poesia e saggio, di preghiera e fatalità, di purezza e perdizione. Di queste pesanti ma fragili vesti sono adornate le donne di Ubaldo Urbano, i volti muliebri e i corpi incendiati che da oltre trent'anni egli dipinge con la stessa incrollabile vocazione.
E con questi abiti Ubaldo le manda nelle faccende del mondo, osservandole mentre si incamminano con prudenza ed eccitazione, con gli occhi indecifrabili di un genitore che consegna le sue creature alla vita e la propria commozione ai meandri dell'anima.In più di una occasione, invitato a pronunciare il nome di un'artista che meglio di ogni altro incarna la proverbiale scomodità di tale sostantivo, senza alcuna esitazione ho fatto il nome di Ubaldo Urbano.
Dal giorno in cui lo conobbi, alcuni anni fa, non ho avuto più dubbi: della smisurata, irreale quantità di artisti presunti che mi è capitato di incontrare, Ubaldo è colui che meglio ha assimilato il rigore dell'arte, la sua fisica essenzialità, il suo distacco dalla ragione: colui che meglio di ogni altro ha saputo interpretare la bizzarria dell'istinto e la saggia pigrizia della creazione.
Per questa imprevedibile ma virtuosa ritrosia può capitare che, mentre il talento delle sue donne attraversa gli angoli del mondo, lui si rifugi per mesi interi dentro l'alcova del suo studio, appunto come un padre severo che conosce il destino dei propri figli soltanto attraverso le loro imprese. E non per disamore, bensì per le torrenziali quantità di emozione e dolore con cui ha dato vita (e quindi libertà) alla sua creatura.
Cronicamente innamorato dell'ingenerosità delle donne, "dell'innocenza con cui sanno punire" e rimuovere il passato con più fretta e perfezione, ho sempre guardato le opere di Ubaldo come un irraggiungibile orizzonte di serenità e turbamento, di bellezza e ossessione. In passato opere d'arte di inestimabile valore hanno descritto con invidiabile precisione la tormentata ma umana connivenza tra amore e dannazione, il sottile confine tra passione e follia. Su tutte mi sia consentito di citarne tre in particolare: un romanzo, un film e un dipinto.
Il romanzo è Un amore di Dino Buzzati, il film Il danno di Louis Malle, mentre il dipinto prende il nome de Le pietre volanti di Fabrizio Clerici. A dire il vero, dal celebre dipinto di Clerici un altro grande artista italiano, lo scrittore Luigi Malerba, trasse l'inquietudine necessaria per la stesura di un bellissimo e fortunato romanzo dal titolo omonimo. In breve tempo, dunque, Le pietre volanti erano divenute un glorioso dipinto, un magnifico romanzo e soprattutto una indimenticabile confessione. Fabrizio Clerici si spogliava delle proprie paure, dei propri sogni e delle proprie inquietudini mentre Luigi Malerba le annotava con avidità su di un taccuino. Ricordo che, subito dopo aver letto Le pietre volanti, spinto dall'irrefrenabile desiderio di sciogliere il segreto che lega l'arte alla vita, chiesi a Ubaldo Urbano se riteneva interessante raccontarsi in un mio romanzo.
Perché proprio a lui? Perché in Ubaldo, nella sua naturale ritrosia, nella sua invidiabile (e magari solo apparente) flemma, nella saggezza del suo saper attendere, rileggevo tute le paure e le euforie di Fabrizio Clerici. Che bel gioco, pensai a un certo punto. Io Luigi Malerba, lui Fabrizio Clerici. Così diversi e distanti, eppure uniti da un unico insopprimibile desiderio di verità, anzi di nudità. Per questo Ubaldo. Perché quando mi rispose affermativamente l'unica clausola alla quale volle che adempissi fu che il romanzo fosse "senza alcuna censura, autentico e spudorato". Per questo, nella mai sopita speranza di cominciare a scrivere quel romanzo, ho caparbiamente desiderato di figurare - indegnamente s'intende - tra i contributi scritti di questa monografia. Questo intervento quale acconto di un antico debito tratto con Ubaldo, in vista di un saldo che probabilmente mai arriverà ma che comunque sento appartenere alle mie cose più care.
Tuttavia, al di là delle più o meno opportune sintonie con le inquietudini di Un amore, Il danno e Le pietre volanti, ciò che più stupisce (e, personalmente, maggiormente mi lega a lui) nelle donne di Ubaldo è il loro volto di speranza. Distratte, innamorate, schive, indifese, aggressive, sensuali e impudiche che siano, queste donne hanno scolpito negli occhi e nei loro lineamenti l'irriducibile grazia della speranza, della fiducia, talvolta dell'ottimismo. E di questa grazia sembra addirittura compiacersene il loro padre, Ubaldo Urbano, come se forte di una convinzione inattaccabile. Come se già sapesse che un giorno andrà ad accompagnarle, una per una, all'altare del mondo presenziando alle loro nozze con l'eternità.
In Urbano, catalogo della mostra personale di Ubaldo Urbano al Palazzetto dell'Arte di Foggia, Foggia, Utopia Edizioni, 1998.
di Davide Grittani
Di spirito e carne, di fede e scienza, di poesia e saggio, di preghiera e fatalità, di purezza e perdizione. Di queste pesanti ma fragili vesti sono adornate le donne di Ubaldo Urbano, i volti muliebri e i corpi incendiati che da oltre trent'anni egli dipinge con la stessa incrollabile vocazione.
E con questi abiti Ubaldo le manda nelle faccende del mondo, osservandole mentre si incamminano con prudenza ed eccitazione, con gli occhi indecifrabili di un genitore che consegna le sue creature alla vita e la propria commozione ai meandri dell'anima.In più di una occasione, invitato a pronunciare il nome di un'artista che meglio di ogni altro incarna la proverbiale scomodità di tale sostantivo, senza alcuna esitazione ho fatto il nome di Ubaldo Urbano.
Dal giorno in cui lo conobbi, alcuni anni fa, non ho avuto più dubbi: della smisurata, irreale quantità di artisti presunti che mi è capitato di incontrare, Ubaldo è colui che meglio ha assimilato il rigore dell'arte, la sua fisica essenzialità, il suo distacco dalla ragione: colui che meglio di ogni altro ha saputo interpretare la bizzarria dell'istinto e la saggia pigrizia della creazione.
Per questa imprevedibile ma virtuosa ritrosia può capitare che, mentre il talento delle sue donne attraversa gli angoli del mondo, lui si rifugi per mesi interi dentro l'alcova del suo studio, appunto come un padre severo che conosce il destino dei propri figli soltanto attraverso le loro imprese. E non per disamore, bensì per le torrenziali quantità di emozione e dolore con cui ha dato vita (e quindi libertà) alla sua creatura.
Cronicamente innamorato dell'ingenerosità delle donne, "dell'innocenza con cui sanno punire" e rimuovere il passato con più fretta e perfezione, ho sempre guardato le opere di Ubaldo come un irraggiungibile orizzonte di serenità e turbamento, di bellezza e ossessione. In passato opere d'arte di inestimabile valore hanno descritto con invidiabile precisione la tormentata ma umana connivenza tra amore e dannazione, il sottile confine tra passione e follia. Su tutte mi sia consentito di citarne tre in particolare: un romanzo, un film e un dipinto.
Il romanzo è Un amore di Dino Buzzati, il film Il danno di Louis Malle, mentre il dipinto prende il nome de Le pietre volanti di Fabrizio Clerici. A dire il vero, dal celebre dipinto di Clerici un altro grande artista italiano, lo scrittore Luigi Malerba, trasse l'inquietudine necessaria per la stesura di un bellissimo e fortunato romanzo dal titolo omonimo. In breve tempo, dunque, Le pietre volanti erano divenute un glorioso dipinto, un magnifico romanzo e soprattutto una indimenticabile confessione. Fabrizio Clerici si spogliava delle proprie paure, dei propri sogni e delle proprie inquietudini mentre Luigi Malerba le annotava con avidità su di un taccuino. Ricordo che, subito dopo aver letto Le pietre volanti, spinto dall'irrefrenabile desiderio di sciogliere il segreto che lega l'arte alla vita, chiesi a Ubaldo Urbano se riteneva interessante raccontarsi in un mio romanzo.
Perché proprio a lui? Perché in Ubaldo, nella sua naturale ritrosia, nella sua invidiabile (e magari solo apparente) flemma, nella saggezza del suo saper attendere, rileggevo tute le paure e le euforie di Fabrizio Clerici. Che bel gioco, pensai a un certo punto. Io Luigi Malerba, lui Fabrizio Clerici. Così diversi e distanti, eppure uniti da un unico insopprimibile desiderio di verità, anzi di nudità. Per questo Ubaldo. Perché quando mi rispose affermativamente l'unica clausola alla quale volle che adempissi fu che il romanzo fosse "senza alcuna censura, autentico e spudorato". Per questo, nella mai sopita speranza di cominciare a scrivere quel romanzo, ho caparbiamente desiderato di figurare - indegnamente s'intende - tra i contributi scritti di questa monografia. Questo intervento quale acconto di un antico debito tratto con Ubaldo, in vista di un saldo che probabilmente mai arriverà ma che comunque sento appartenere alle mie cose più care.
Tuttavia, al di là delle più o meno opportune sintonie con le inquietudini di Un amore, Il danno e Le pietre volanti, ciò che più stupisce (e, personalmente, maggiormente mi lega a lui) nelle donne di Ubaldo è il loro volto di speranza. Distratte, innamorate, schive, indifese, aggressive, sensuali e impudiche che siano, queste donne hanno scolpito negli occhi e nei loro lineamenti l'irriducibile grazia della speranza, della fiducia, talvolta dell'ottimismo. E di questa grazia sembra addirittura compiacersene il loro padre, Ubaldo Urbano, come se forte di una convinzione inattaccabile. Come se già sapesse che un giorno andrà ad accompagnarle, una per una, all'altare del mondo presenziando alle loro nozze con l'eternità.
In Urbano, catalogo della mostra personale di Ubaldo Urbano al Palazzetto dell'Arte di Foggia, Foggia, Utopia Edizioni, 1998.