OPERE
IL SUD DI URBANO
di Michele Prisco
Profondamente fedele a una sua nozione di pittura come testimonianza, propria degli artisti e degli scrittori che non sono nati per caso in un luogo e in un tempo e che della loro origine si valgono come di una genuinità altrimenti irreperibile, il pugliese Ubaldo Urbano nel suo lavoro ha privilegiato in prevalenza la figura umana e, di questa, il volto e il corpo della donna: entrambi stilizzati quel tanto da svincolarli da ogni sospetto o equivoco, di naturalismo, ma entrambi connotati - attraverso il colore, l'impasto, il segno - in una sorta di identikit comune che li rende a un impatto immediato subito riconoscibili fra loro e al tempo stesso emblematici di una certa idea del Sud.
È un Sud, quello di Urbano, tutto particolare, di cui si coglie il sentimento giusto da un accenno di paesaggio al fondo della tela dove in primo piano si accampano, malinconiche e assorte nella loro intensa ma rattenuta sensualità, le sue donne (ed è sempre un paesaggio di case o di orizzonti "povero", e come spento e deserto), oppure dalla presenza, a volte, d'un oggetto della vita quotidiana, modesto e povero anch'esso - una brocca o un piatto o un frutto o un pane - ma che si ripropone intero e con più sottigliezza come naturale e unico "ritratto", per la costante evidente aspirazione a trasmetterci il senso di una "grecità" percepita e concepita come ideale collegamento (e prolungamento) ereditario alla forza delle radici antropologiche e, vorremmo aggiungere, archeologiche.
Di qui, anche, quell'impressione di classica compostezza che le sue figure ci restituiscono ogni volta: e di qui, ancora, quell'impressione di severità che affiora spesso dai volti di queste giovani donne o dai loro torsi o dai loro corpi, puntualmente inscritti in un rigore compositivo (talora quasi geometrico, sin nella scansione dei tratti somatici) che tende a chiuderli in un alone di arcaicità e, più, di solitudine, ad onta della loro tutta moderna impaginazione.
È una pittura, la pittura di Urbano, che di proposito non vuole rimandare ad altri significati sovraesposti o sottoesposti dell'immagine, quali la metafisica da una parte e una certa caratterizzazione espressionista dall'altra potrebbero suggerire: eppure nonostante la sua affabulatoria leggibilità è una pittura singolarmente misteriosa e carica di suggestioni sino al turbamento. Si sarebbe portati per istinto a voler oltrepassare la soglia di quel mistero, o a cercare almeno di insinuarvisi per spiegarselo, ma i volti restano impenetrabili, inafferrabili, indecifrabili: sembrano chiamarci - tutta l'arte è una domanda - ma non ci danno risposta.
. In catalogo della mostra personale di Ubaldo Urbano al Palazzetto dell'Arte di Foggia nel 1989.
di Michele Prisco
Profondamente fedele a una sua nozione di pittura come testimonianza, propria degli artisti e degli scrittori che non sono nati per caso in un luogo e in un tempo e che della loro origine si valgono come di una genuinità altrimenti irreperibile, il pugliese Ubaldo Urbano nel suo lavoro ha privilegiato in prevalenza la figura umana e, di questa, il volto e il corpo della donna: entrambi stilizzati quel tanto da svincolarli da ogni sospetto o equivoco, di naturalismo, ma entrambi connotati - attraverso il colore, l'impasto, il segno - in una sorta di identikit comune che li rende a un impatto immediato subito riconoscibili fra loro e al tempo stesso emblematici di una certa idea del Sud.
È un Sud, quello di Urbano, tutto particolare, di cui si coglie il sentimento giusto da un accenno di paesaggio al fondo della tela dove in primo piano si accampano, malinconiche e assorte nella loro intensa ma rattenuta sensualità, le sue donne (ed è sempre un paesaggio di case o di orizzonti "povero", e come spento e deserto), oppure dalla presenza, a volte, d'un oggetto della vita quotidiana, modesto e povero anch'esso - una brocca o un piatto o un frutto o un pane - ma che si ripropone intero e con più sottigliezza come naturale e unico "ritratto", per la costante evidente aspirazione a trasmetterci il senso di una "grecità" percepita e concepita come ideale collegamento (e prolungamento) ereditario alla forza delle radici antropologiche e, vorremmo aggiungere, archeologiche.
Di qui, anche, quell'impressione di classica compostezza che le sue figure ci restituiscono ogni volta: e di qui, ancora, quell'impressione di severità che affiora spesso dai volti di queste giovani donne o dai loro torsi o dai loro corpi, puntualmente inscritti in un rigore compositivo (talora quasi geometrico, sin nella scansione dei tratti somatici) che tende a chiuderli in un alone di arcaicità e, più, di solitudine, ad onta della loro tutta moderna impaginazione.
È una pittura, la pittura di Urbano, che di proposito non vuole rimandare ad altri significati sovraesposti o sottoesposti dell'immagine, quali la metafisica da una parte e una certa caratterizzazione espressionista dall'altra potrebbero suggerire: eppure nonostante la sua affabulatoria leggibilità è una pittura singolarmente misteriosa e carica di suggestioni sino al turbamento. Si sarebbe portati per istinto a voler oltrepassare la soglia di quel mistero, o a cercare almeno di insinuarvisi per spiegarselo, ma i volti restano impenetrabili, inafferrabili, indecifrabili: sembrano chiamarci - tutta l'arte è una domanda - ma non ci danno risposta.
. In catalogo della mostra personale di Ubaldo Urbano al Palazzetto dell'Arte di Foggia nel 1989.