OPERE
URBANO
di Vittorio Sgarbi
Ci sono nomi, e per le persone anche dei cognomi, che hanno il potere di suscitare nella mente analogie dalle quali cerchiamo di ricavare un significato pertinente, un rapporto. Sono giochi istintivi, probabilmente futili e ingannevoli, ma è difficile resistere alla tentazione di ricorrervi; stabiliscono con un soggetto, altrimenti ignoto, una sorta di conoscenza primaria in mancanza di esaurienti informazioni provenienti dall'esterno sulla base della nostra sola esperienza, un po' come quando ci capita di voler capire il carattere di una persona sconosciuta.
È per questa ragione che quando ho visto per la prima volta all'Expo Arte di Bari le opere di Urbano (lo chiamerò sempre come se avesse solo il cognome, visto che può sostituire benissimo anche il nome) senza sapere altro di lui, mi è venuto di chiedermi se la sua pittura potesse essere definita in qualche modo "urbana".
L'urbanità di Urbano sta nella modernità figurativa, nella correttezza e nell'equilibrio della sintesi formale, in una parola nella civiltà della sua pittura. C'è tanta "inurbanità" nell'arte dei nostri giorni, talvolta intenzionale, talvolta anche positiva, il più delle volte involontaria e infelice, che quando si incontrano eccezioni, non ci si può che rallegrare.
Andrebbe piuttosto chiarito su che cosa si basa concretamente la pittura di Urbano. Proviene da una salda coscienza della figurazione italiana di questo secolo, una coscienza che risale senza esitazioni all'esempio di Felice Casorati, alla temperie di Valori Plastici, a tutte quelle esperienze di primo Novecento che hanno cercato di coniugare il concetto di classicismo con quello di modernità. Non stiamo parlando di intenti retrospettivi, di citazionismo colto o di altre volontà programmaticamente imitatorie.
Urbano si limita a conoscere, a apprendere, a rielaborare, e sente il bisogno di applicare a se stesso la seguente regola di Casorati: "voglio dipingere persone e cose semplicemente come le vedo e le amo: i miei sforzi d'oggi sono quindi intesi a liberarmi da tutte le teorie, le ipotesi, gli schemi, i gusti, le rivelazione e le restaurazioni dei quali con generosa avidità si è avvelenata la mia giovinezza".
Un procedere a ritroso, dunque, nel tentativo di rendere quanto più semplice, immediata, "naturale" una pittura che sicuramente non poteva nascere dal nulla. Niente di più, ma non si tratta di poco.
"In principio era il disegno", potrebbe affermare, facendo eco alla più tipica tradizione italiana, il nostro Urbano. Le sue figure non sarebbero senza quei contorni netti come le linee di confine in una carta geografica, all'interno dei quali il modellato si semplifica per dare finalmente al colore la giusta forza espressiva.
Come dal contrasto tra energie divergenti, la vitalità delle immagini di Urbano nasce dall'opposizione di colori caldi (i colori del sole, del sud, del mediterraneo) e di colori freddi, atoni, striduli. E di colori caldi si nutrono le donne di Urbano, ora dalle volumetrie sferiche come le Giunoni del Picasso rappelé à l'ordre, ora snelle mannequin dalla bellezza più consona all'età, delle riviste illustrate e del cinematografo, sempre comunque sensuali e disponibili a essere ammirate. Stanno, le donne di Urbano, in un limbo ambiguo e singolare, a mezza strada tra il realismo più fedele e la sua idealizzazione, tra oggettività ed espressione. È merito di una cifra stilistica sintetica, precisa ed essenziale allo stesso tempo, di grande efficacia comunicativa, una cifra volutamente "popolare" ma non in senso popolaresco, ammiccante cioè al folklorico, bensì nel significato rivelato alle arti visive contemporanee dalla Pop-Art.
Oggi la nuova "popolarità" risiede non nei riti o nelle usanze conservati gelosamente da certe comunità, ma nei fenomeni che si affermano con la comunicazione di massa. Vedo nella cifra di Urbano, una sensibilità a queste istanze, assomigliando a certa grafica post-accademica della pubblicità, dei fumetti, dei manifesti cinematografici, che era in voga un po' ovunque negli anni Sessanta.
Molte delle donne di Urbano, flessuose, morbide, attraenti, sarebbero potute stare benissimo, durante quegli anni, in una copertina di un pocket-book, in un manifesto pubblicitario di un film. Era la grafica che dominava l'aspetto visivo delle nostre città. Una ragione in più, a pensarci bene, per ribadire "l'urbanità" della pittura di Urbano.
In Urbano, catalogo della mostra personale di Ubaldo Urbano al Palazzetto dell'Arte di Foggia, dicembre 1998, Utopia Edizioni, Foggia, 1998.
di Vittorio Sgarbi
Ci sono nomi, e per le persone anche dei cognomi, che hanno il potere di suscitare nella mente analogie dalle quali cerchiamo di ricavare un significato pertinente, un rapporto. Sono giochi istintivi, probabilmente futili e ingannevoli, ma è difficile resistere alla tentazione di ricorrervi; stabiliscono con un soggetto, altrimenti ignoto, una sorta di conoscenza primaria in mancanza di esaurienti informazioni provenienti dall'esterno sulla base della nostra sola esperienza, un po' come quando ci capita di voler capire il carattere di una persona sconosciuta.
È per questa ragione che quando ho visto per la prima volta all'Expo Arte di Bari le opere di Urbano (lo chiamerò sempre come se avesse solo il cognome, visto che può sostituire benissimo anche il nome) senza sapere altro di lui, mi è venuto di chiedermi se la sua pittura potesse essere definita in qualche modo "urbana".
L'urbanità di Urbano sta nella modernità figurativa, nella correttezza e nell'equilibrio della sintesi formale, in una parola nella civiltà della sua pittura. C'è tanta "inurbanità" nell'arte dei nostri giorni, talvolta intenzionale, talvolta anche positiva, il più delle volte involontaria e infelice, che quando si incontrano eccezioni, non ci si può che rallegrare.
Andrebbe piuttosto chiarito su che cosa si basa concretamente la pittura di Urbano. Proviene da una salda coscienza della figurazione italiana di questo secolo, una coscienza che risale senza esitazioni all'esempio di Felice Casorati, alla temperie di Valori Plastici, a tutte quelle esperienze di primo Novecento che hanno cercato di coniugare il concetto di classicismo con quello di modernità. Non stiamo parlando di intenti retrospettivi, di citazionismo colto o di altre volontà programmaticamente imitatorie.
Urbano si limita a conoscere, a apprendere, a rielaborare, e sente il bisogno di applicare a se stesso la seguente regola di Casorati: "voglio dipingere persone e cose semplicemente come le vedo e le amo: i miei sforzi d'oggi sono quindi intesi a liberarmi da tutte le teorie, le ipotesi, gli schemi, i gusti, le rivelazione e le restaurazioni dei quali con generosa avidità si è avvelenata la mia giovinezza".
Un procedere a ritroso, dunque, nel tentativo di rendere quanto più semplice, immediata, "naturale" una pittura che sicuramente non poteva nascere dal nulla. Niente di più, ma non si tratta di poco.
"In principio era il disegno", potrebbe affermare, facendo eco alla più tipica tradizione italiana, il nostro Urbano. Le sue figure non sarebbero senza quei contorni netti come le linee di confine in una carta geografica, all'interno dei quali il modellato si semplifica per dare finalmente al colore la giusta forza espressiva.
Come dal contrasto tra energie divergenti, la vitalità delle immagini di Urbano nasce dall'opposizione di colori caldi (i colori del sole, del sud, del mediterraneo) e di colori freddi, atoni, striduli. E di colori caldi si nutrono le donne di Urbano, ora dalle volumetrie sferiche come le Giunoni del Picasso rappelé à l'ordre, ora snelle mannequin dalla bellezza più consona all'età, delle riviste illustrate e del cinematografo, sempre comunque sensuali e disponibili a essere ammirate. Stanno, le donne di Urbano, in un limbo ambiguo e singolare, a mezza strada tra il realismo più fedele e la sua idealizzazione, tra oggettività ed espressione. È merito di una cifra stilistica sintetica, precisa ed essenziale allo stesso tempo, di grande efficacia comunicativa, una cifra volutamente "popolare" ma non in senso popolaresco, ammiccante cioè al folklorico, bensì nel significato rivelato alle arti visive contemporanee dalla Pop-Art.
Oggi la nuova "popolarità" risiede non nei riti o nelle usanze conservati gelosamente da certe comunità, ma nei fenomeni che si affermano con la comunicazione di massa. Vedo nella cifra di Urbano, una sensibilità a queste istanze, assomigliando a certa grafica post-accademica della pubblicità, dei fumetti, dei manifesti cinematografici, che era in voga un po' ovunque negli anni Sessanta.
Molte delle donne di Urbano, flessuose, morbide, attraenti, sarebbero potute stare benissimo, durante quegli anni, in una copertina di un pocket-book, in un manifesto pubblicitario di un film. Era la grafica che dominava l'aspetto visivo delle nostre città. Una ragione in più, a pensarci bene, per ribadire "l'urbanità" della pittura di Urbano.
In Urbano, catalogo della mostra personale di Ubaldo Urbano al Palazzetto dell'Arte di Foggia, dicembre 1998, Utopia Edizioni, Foggia, 1998.